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Rainbow washing e la comunità LGBTQIA+

Il rainbow washing è un termine sempre più popolare per identificare un finto impegno aziendale nei confronti delle comunità LGBT+. Scopri di più.

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Gruppo di persone che manifesta contro il rainbow washing

Il rainbow washing è una delle principali categorie che compongono il woke washing, ovvero quell’insieme di pratiche e dichiarazioni aziendali che vanno nella direzione di sostenere le politiche di Diversity, Equity e Inclusion, senza però una attuazione concreta: azioni quindi effettuate solo “di facciata”, per  compiacere i consumatori. Ma cos’è di preciso il rainbow washing e chi coinvolge?

In questo articolo approfondiremo:

  1. Cos’è il rainbow washing
  2. Il rainbow washing tra consumatori e dipendenti
  3. La comunità LGBTQIA+ e l’ambiente di lavoro

I diritti dei professionisti sono notevolmente cambiati negli ultimi anni, le stesse politiche di DEI aziendali sono maturate per favorire la parità di trattamento sul luogo di lavoro ed evitare pratiche come il rainbow washing. Vuoi approfondire il tema? Scarica il nostro approfondimento gratuito sui diritti dei lavoratori

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Cos'è il rainbow washing

L’espressione rainbow washing nasce dall’insieme di due termini inglesi: “rainbow” ovvero arcobaleno; “washing” ovvero lavare oppure ripulire

Questa associazione prende spunto dal verbo inglese “whitewash che significa letteralmente “imbiancare, dare la calce”. In senso metaforico è spesso usato per indicare la tendenza a nascondere la verità per migliorare la reputazione di una persona o un brand.

Qual è allora il significato di rainbow washing?

Di fatto, il primo termine - “rainbow” - fa riferimento alla bandiera arcobaleno, la quale rappresenta uno dei simboli più forti e conosciuti dell’orgoglio LGBTQIA+. Il secondo termine “washing” è sempre più usato dagli attivisti, e oggigiorno dalla popolazione in generale, per identificare i tentativi di molte imprese di mascherare strategie di marketing e comunicazione che nascondono la verità con dichiarazioni che hanno il mero scopo di aumentare il proprio profitto.

In questo senso, il rainbow washing indica l’insieme di tutte quelle attività di marketing che un’azienda mette in atto per avvicinarsi alla popolazione LGBTQIA+ e ottenere l’apprezzamento dei consumatori, senza che però vi sia un reale impegno in iniziative di DEI.

Il rainbow washing tra consumatori e dipendenti

Come anticipato, il termine rainbow washing è principalmente utilizzato per le aziende che fingono un reale sostegno alla comunità LGBTQIA+, per esempio tingendo di arcobaleno il packaging dei propri prodotti, senza che questa azione abbia una ricaduta pratica a livello sociale. Sono diversi, infatti, i casi di aziende che a giugno, il cosiddetto Pride Month a sostegno della comunità LGBTQIA+, si mostrano vicini ai consumatori enfatizzando l’inclusione solo di facciata. 

Alcuni esempi più comuni sono:

  • l’aggiornamento del logo con i colori arcobaleno;
  • la revisione delle homepage dei siti web, con accenni alla comunità LGBTQIA+;
  • la promozione di sconti per il mese del Pride.

Di fatto, la finta promozione dell’inclusione sociale non si ha solo nei confronti dei consumatori ma anche dei dipendenti. Così il rainbow washing può riferirsi anche a tutti quei datori di lavoro che dichiarano di promuovere un ambiente inclusivo, nel quale però la diversità di orientamento sessuale viene comunque schernita o diventa oggetto di disparità.

Donna di colore che scrive sullo sfondo ha una bandiera arcobaleno

La comunità LGBTQIA+ e l’ambiente di lavoro

Il rainbow washing è quindi un fenomeno che caratterizza le imprese anche come datori di lavoro. Sempre più spesso si stanno mettendo in atto politiche di Diversity e Inclusion nei confronti dei propri dipendenti con l’obiettivo di valorizzare la diversità interna come fonte di successo e crescita aziendale.

Secondo i dati della“Indagine sulle discriminazioni lavorative nei confronti delle persone LGBT+ in unione civile o unite in passato” pubblicata a maggio 2023, il coming out, ovvero l’azione di confidare il proprio orientamento sessuale, in ambito lavorativo è diffuso. Infatti, l’orientamento sessuale altrui è conosciuto dal:

  • 78,3% dei colleghi di pari grado;
  • 64,8% dei superiori e dal datore di lavoro;
  • 55,3% dei colleghi di grado inferiore.

ll 41,4% delle persone, però, dichiara che essere omosessuale o bisessuale ha rappresentato uno svantaggio nel corso della propria vita lavorativa. La stessa indagine condotta nel biennio 2020-2021 aveva fatto emergere come le persone che si sono sentite svantaggiate fossero il 26%, sintomo di un forte aumento nel corso degli anni.

A ciò si associa anche un’altra evidenza: l’80% delle persone omosessuali o bisessuali intervistate ha sperimentato almeno una forma di micro-aggressione in ambito lavorativo - ovvero messaggi denigratori oppure insulti sottili, che spesso avvengono in modo automatico o inconscio.

La maggioranza degli intervistati ritiene che per favorire l’inclusione delle persone LGBTQIA+ nel mondo del lavoro siano urgenti attività di formazione e sensibilizzazione. Nell’indagine del biennio 2020-2021 sono emersi ancora come poco diffusi gli eventi formativi sui temi legati alle diversità LGBTQIA+ rivolti al top management (1,3%) e ai lavoratori (1,2%) così come permessi, benefit e altre misure specifiche per i lavoratori non cisgender.

In un contesto dove si parla molto di inclusione, ma i dati dicono che è attuata solo in piccola parte attuata, i datori di lavoro dovrebbero riuscire a mettere in atto delle vere e proprie azioni a favore della comunità LGBTQIA+ senza limitarsi a dichiarazioni superficiali che fomentano il rainbow washing.

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